È utile per il professionista abbinare la ricerca scientifica all’attività clinica?
Non esiste una risposta unica e certa a questa domanda, ma alcune considerazioni possono essere fatte in merito a tale interrogativo.
Da alcune parti si sostiene che al medico basti una formazione clinica sufficiente da permettergli di riconoscere nel più breve tempo e con la maggior accuratezza possibili sintomi e malattie, fatto che è indubbiamente fondamentale per il paziente. L’apprendimento di tali conoscenze avviene in genere nell’ambito della scuola di medicina o di specializzazione, con l’esperienza pratica della professione o attraverso la partecipazione a programmi di addestramento presso centri di alto livello professionale. Tuttavia, il sapere medico è in stato di continua fluidità con le certezze di oggi che possono essere facilmente smentite domani. L’Evidence Based Medicine (EBM) è stata progettata per connettere scienza di base e medicina, contribuendo così a minimizzare il gap tra teoria e pratica e mantenere così la professione al livello più elevato ed aggiornato possibile. Altre forme di aggiornamento continuo in medicina hanno simili scopi e sono variabilmente accettate dalla categoria professionale. Implicito in tutto questo è l’idea che ciò che viene offerto al medico sotto forma di news o di informazione/aggiornamento o quant’altro sia il distillato della scienza da trasferire nella pratica clinica. È un po’ come una legge nazionale che deve essere portata in periferia per essere applicata così com’è. Ma è proprio così?
Molti altri professionisti sono, tuttavia, in netto disaccordo con questo ragionamento. Perché? Il motivo di base è che ciò che viene accettato o ipotizzato come scienza, può essere non condiviso all’origine da una significativa parte della comunità medica o successivamente manipolato o misinterpretato per vari motivi. Un tipico esempio in medicina respiratoria è offerto dalla definizione del danno funzionale per la malattie ostruttive del polmone, elemento chiave a scopo diagnostico ma fortemente discordante tra le linee guida ATS/ERS del 2005 (ref 58) ed i documenti internazionali come GINA o GOLD. Davanti a dilemmi clinici così importanti come il suddetto, è certamente la capacità critica del professionista ciò che permette di giudicare al meglio opinioni così differenti e promuoverne le opportune scelte. Come sopra anticipato, un ambiente lavorativo di elevato livello professionale, onesto, privo di pregiudizi e costantemente alla ricerca della verità è sicuramente di grande aiuto allo scopo, ma superiore a questo è l’utilizzo delle rigorose e solide metodologie della ricerca scientifica nella pratica clinica allo scopo di sezionare i vari aspetti dei dilemmi, valutarli con onestà, e formulare giudizi finali. Tutto quanto presentato sopra rappresenta la vera motivazione dell’intensa attività scientifica del prof. Pellegrino nella sua carriera professionale. Per rispondere dunque alla domanda iniziale se la ricerca scientifica abbia un impatto positivo nella pratica clinica, la risposta è certamente si. Essa è utile al professionista per dirimere i dilemmi della moderna medicina in modo critico ed onesto ed è indispensabile per la medicina del futuro.